giovedì 12 maggio 2011

TERRA DI SOGNI E SPERANZE

Dalla letteratura di Francis Scott Fitzgerald e John Steinbeck al cinema di Martin Scorsese e alle canzoni di Bruce Springsteen: gli Stati Uniti raccontati tramite le vite dell’ American everyman.
“‘Sai, quella bandiera che sventola sul Municipio significa che ci sono cose scolpite nella pietra. Chi siamo, cosa faremo e cosa no.’ Quindi, l’idea era questa: c’è un ragazzo che cerca di parlare a suo figlio e dirgli: ‘Ascolta, ci sono certe cose che dovrebbero essere sacre. E che ci rendono quello che siamo. E che ci guidano e ci dicono cosa fare. Queste cose è importante ricordarle, soprattutto quando il Paese è sotto i riflettori e i tempi sono difficili. Che poi è la situazione di oggi.”
Bruce Springsteen
Da sempre la bandiera è un simbolo di riconoscimento universale. Si pensi alle bandiere di segnalazione marittima, o a quelle di una squadra di calcio. È ovvio che la bandiera di uno Stato ricopra un’ importanza inequivocabile, perché ne indica non solo i confini geografici, l’organizzazione amministrativa e via dicendo, ma anche – e soprattutto – ne indica il carattere. Pensandoci un attimo su, quei tre, quattro colori, quei pochi segni su un tessuto indicano, a chi li guarda, tutta una nazione. Chi non ha memorizzata nel cervello l’immagine della bandiera Francese che sventola sui corpi straziati di Adolf Thiers, o quella dell’Unione Sovietica sopra i cieli di Berlino Est nel secondo dopoguerra? Di più, la bandiera diventa il mezzo col quale ognuno identifica un paese. Prima delle sue tradizioni, del suo governo, della sua storia. Si guarda la bandiera e si riconosce lo Stato. Ed il discorso vale per gli stessi cittadini di quella Nazione. In un paese come il nostro, il Tricolore sventola quando gioca la Nazionale di calcio, e in altre rarissime occasioni. Diciamo la verità, noi Italiani non ci sentiamo molto patriottici, sarà perché il nostro passato è poco glorioso rispetto ad altri. Ma se si sposta il discorso altrove, negli Stati Uniti appunto, è possibile notare una sostanziale differenza, anche curiosa, per certi aspetti. In una società multietnica e multiculturale come quella Americana, la bandiera viene intesa come simbolo di unità, come minimo comune denominatore di valori, di idee condivise, come richiamo a quei pensieri stessi che furono alla base della Dichiarazione D’Indipendenza firmata quel 4 luglio del 1776 a Philadelphia. Costituisce, quindi, l’identità nazionale del Paese.
Parlare degli Stati Uniti D’America ha un suo fascino inequivocabile, certamente legato a varie considerazioni, prima fra tutte quella dell’aura quasi di sacralità e di mito che, fin dalla scoperta del continente Americano, si è diffusa tra gli Europei. Cominciando dai primi viaggi colonizzatori di Inglesi e Spagnoli, fino ad arrivare alle emigrazioni Italiane del primo Novecento, spesso il ‘Nuovo Continente’ è diventato il sogno di quanti, in ogni epoca, desideravano dare una svolta alla propria vita, o volevano semplicemente ricominciare daccapo. È diventato sinonimo di nuove possibilità, nuovi orizzonti, nuove promesse. La sua immagine è diventata parte integrante del patrimonio, se non universale, almeno Europeo nelle teste di milioni di persone lungo un percorso temporale che copre oramai più di 500 anni. È ovvio che, in questa ininterrotta ondata migratoria, risulti difficile definire con esattezza quali siano le caratteristiche del popolo Statunitense. Se è vero, come alcuni affermano, che l’identità di una nazione è retaggio dei primi uomini che hanno abitato una terra, allora dovrebbero essere considerati veri Americani solamente i nativi, i pellerossa – come vengono chiamati; ma pensarlo è un po’ ingenuo, visto che ad oggi i pochi scampati allo sterminio vivono in riserve protette dal governo. E allora, già da questo primo esempio, appare evidente un altro elemento insito agli Stati Uniti, vale a dire l’eterogeneità, l’identità multietnica – curioso ossimoro – che li contraddistingue. Ma quel che più sorprende, a rifletterci su, è la straordinaria capacità di aver saputo sfruttare gradatamente questa diversità culturale, etnica, sociale, anche linguistica, facendola diventare infine elemento di unione, di compattezza, di riconoscimento su piano mondiale. Di più, contribuendo a definire l’essenza stessa di un intero paese, unione a sua volta di 52 stati, ognuno dei quali mantiene la propria autonomia, la propria – se la si può chiamare così – ‘cifra stilistica’, la propria insindacabile caratteristica. Tuttavia sulle cartine politiche questo enorme territorio è colorato con la stessa tinta con in mezzo la scritta U.S.A. , perché fa capo ad un unico Presidente, risponde più o meno alle stesse leggi ed elegge i membri di uno stesso Congresso. Nella Dichiarazione D’Indipendenza si legge: “Noi riteniamo siano di per sé evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono stati creati uguali; che essi sono dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili; che tra questi diritti ci sono la Vita, la Libertà e la Ricerca della Felicità. Inoltre che, al fine di garantire tali diritti, vengano istituiti tra gli uomini Governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso di coloro che sono governati”. Già la scelta di usare la prima persona plurale al posto di una generica impersonalità è significativa: vuol dire che ciò di cui si sta parlando non riguarda solo qualcuno, ma tutta la comunità; non è scontato, ma ha bisogno di essere affermato ogni qual volta ce ne sia bisogno. E quali sono questi diritti inalienabili, trattati come sacri? La Vita, la Libertà e la Ricerca Della Felicità. Non si parla del Lavoro, come nella Costituzione Italiana, né di sovranità nazionale come in quella Francese. Si parla di un qualcosa che è sotto i nostri occhi tutti i giorni, che molti cercano (la Felicità) e affermano (la Vita) e che tuttavia in alcune parti del mondo viene ancora negato (la Libertà).
Ed è probabilmente in queste tre parole che è rinchiuso il segreto di una nazione che è cresciuta sempre più, basandosi sulle proprie forze, sì, ma soprattutto si è formata grazie all’impegno e alla forza della sua gente, popolo altamente stratificato socialmente, economicamente e culturalmente che ha saputo costituire un unico, grande paese che costituisce, ancora oggi, il simbolo di quei valori di cui si è fatto portatore.
IL MITO DELLA TERRA PROMESSA
Dalla fine del 1800 iniziò un esodo massiccio della popolazione europea verso gli Stati Uniti; intere famiglie vendevano quel poco che avevano per intraprendere il viaggio della speranza, alla ricerca di un posto dove restare, un posto da chiamare di nuovo casa. Erano contadini, operai , disoccupati a cui la vita non aveva offerto molto, che non riuscivano a sbarcare il lunario e a portare a casa quel che occorreva per mandare avanti famiglie spesso numerose. Ed intanto si diffondevano le voci sul meraviglioso Nuovo Mondo, storie – spesso alimentate da suggestioni più che da concreti riscontri – di gente che aveva fatto fortuna, che si era lasciata alle spalle la miseria per trovare valli dorate, facili guadagni e lavoro in abbondanza. Con questa prospettiva si imbarcavano su navi spesso fatiscenti, malridotte, che a stento rimanevano a galla – molto simili, se ci si pensa su un attimo, alle tante imbarcazioni che d’estate portano centinaia di clandestini sulle coste di Pantelleria. Cent’anni di differenza, ma quasi non si vedono. E, in fondo, uno stesso destino li accomuna: una volta sbarcati, i sopravvissuti – sì, perché in condizioni veramente precarie in tanti morivano in una tratta così lunga – si trovavano a far fronte alla realtà, con la sola differenza, probabilmente, che, in un modo o nell’altro, in America c’era – e c’è – la possibilità di realizzare i propri sogni, lavorando duro. Tuttavia, ed è bene evidenziarlo, anche allora gli immigrati non erano visti di buon occhio dalla gente del posto, e sovente fioccavano i commenti, e i pregiudizi li accompagnavano in ogni luogo. Uno su tutti, va ricordato il caso di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, due anarchici Italiani ingiustamente condannati a morte per un crimine che non avevano commesso, l’omicidio di una guardia giurata e di un cassiere. Sulla loro colpevolezza vi furono molti dubbi già all'epoca del loro processo, e a nulla valse la confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros, che scagionava i due. Soltanto nel 1977 Michael Dukakis, governatore dello Stato del Massachusetts, riconobbe ufficialmente gli errori commessi nel processo e riabilitò completamente la memoria dei due Italiani. Lo stesso Vanzetti, davanti alla giuria, dipinse in questi termini l’arrivo in America: "Al centro immigrazione ebbi la prima sorpresa. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali. Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato in America. […] Dove potevo andare? Cosa potevo fare? Quella era la Terra Promessa. Il treno della sopraelevata passava sferragliando e non rispondeva niente. Le automobili e i tram passavano oltre senza badare a me". Il mito, la favola si scontra con la dura realtà quindi, e ne esce immancabilmente segnato. Si vive il dramma della separazione, il ritrovarsi in un territorio straniero senza punti di riferimento, molte volte senza nemmeno la consolazione della famiglia, lontano mille miglia oltreoceano. Certo, spesso alcune attese vengono soddisfatte, si trova lavoro: ma che tipo di lavoro e a quali condizioni. Si soffre la fame perché i soldi servono per far arrivare in America il resto della famiglia, si corrono rischi perché il lavoro è precario, molte volte è a nero e a pochi importa se muore un immigrato.
Ben rende l’idea la poesia He Lies In The American Land scritta dal minatore slovacco Andrew Kovaly nei primi del Novecento, che racconta la vicenda di un suo connazionale morto in miniera dopo aver spedito a casa i soldi sufficienti per farsi raggiungere dalla propria famiglia.
Ah, mio Dio, cos’è questa terra chiamata America?
In tanti ci stanno andando
E ci andrò anch’io ora che son ancora giovane.
Il Signore mi garantirà la fortuna, laggiù.
E tu, moglie mia, resta qui fin quando non avrai mie notizie
E quando riceverai la mia lettera, sistema tutto
Monta su un destriero nero come il corvo, un cavallo veloce come il vento
E vola sull’oceano per raggiungermi.
Ma quando lei arrivò in questa terra per lei straniera
Qui a McKeesport, in questa valle di fuoco
Soltanto la sua tomba e il suo sangue, il suo sangue trovò
E su quello pianse amaramente:
Ah,marito mio, cos’hai fatto alla tua famiglia?
Cosa potrai dire a questi bambini, a questi bambini che hai reso orfani?
Dì loro, moglie mia, di non aspettarmi
Dì loro che giaccio qui in terra Americana.
Da questa poesia ha preso poi spunto lo storyteller Americano Bruce Springsteen quando, nel 2006, ha composto una canzone dal titolo American Land che, volendo, può essere considerata un proseguimento della poesia, in quanto narra la speranza del viaggio, lo sbarco ad Ellis Island ed infine la disillusione di tutti coloro che avevano sognato di rifarsi una vita. È sempre il minatore a parlare, racconta alla moglie quel che gli hanno raccontato: le donne vestono ‹‹di seta e raso da capo a piedi››, ci sono ‹‹diamanti sui marciapiedi›› e ‹‹l’oro sgorga dai fiumi direttamente nelle tue mani se costruisci la tua casa in terra Americana››. Una volta arrivato in America, però, il protagonista si ritrova a ‹‹vagare in una valle di acciaio incandescente››, e lentamente si rende conto che tutto quello – o quasi – in cui aveva sperato si rivela essere soltanto un’illusione. A questo punto il protagonista esce di scena, muore, e la riflessione finale è lasciata ad un qualunque cittadino: ‹‹Sono morti costruendo le ferrovie›› dice, ‹‹hanno lavorato fino a ridursi a pelle e ossa; sono morti nei campi e nelle fabbriche, i loro nomi dispersi nel vento; sono morti per arrivare fin qui cent’anni fa e ancora oggi, hanno costruito questo Paese che cerca sempre di respingerli››.
Facendo un passo indietro di alcuni decenni, possiamo parlare del mito della terra promessa anche rispetto alla grande e “storica” lotta tra uomo occidentale e indiani d’America; in The Searchers (Sentieri Selvaggi), film del 1956 diretto da John Ford si narra della storia di Ethan Edwards (John Wayne), veterano della guerra di secessione che, tornando a casa dopo tre anni dalla fine del conflitto (siamo nel 1868), trova la sua famiglia massacrata dagli indiani Comanche, che hanno anche preso con loro la sua nipotina (Natalie Wood). Ethan si mette dunque alla sua ricerca, accompagnato dal figlio adottivo di suo fratello (Jeffrey Hunter), in parte bianco e in parte Indiano. Quando, dopo cinque anni, la ritroverà, scoprirà che nel frattempo è diventata la compagna del capotribù Scar (Henry Brandon) e la vorrà uccidere. Tuttavia, desistendo dal recidere l’ultimo suo legame con la famiglia, Ethan prenderà in braccio la ragazza e la riporterà a casa. Il film si conclude con una tra le immagini più famose della storia del cinema: di fronte alla porta di casa, mentre il resto della famiglia rientra, Ethan li osserva da fuori, in silenzio, prima di voltare le spalle e allontanarsi, da solo, nel deserto. Ed è proprio così che si ribalta il mito: da essere sinonimo di terra accogliente, che abbraccia e non lascia nessuno solo, si è trasformato nel suo opposto. Il destino che attende Ethan è quello di solitudine: non riconosce più quello in cui credeva, ai vecchi valori se ne sono sostituiti dei nuovi che in alcun modo gli possono appartenere, come quelli del perdono, della convivenza tra razze e dell’umanità. La terra promessa si scopre così essere solo un miraggio, anche per gli stessi Americani: una volta abbandonata la casa, simbolo di unità – non solo familiare – per cercarla, l’uomo diventa un vagabondo, e manterrà questa sua caratteristica per il resto dei suoi giorni.
Ed è proprio quello che succede in The Grapes Of Wrath (Furore), romanzo di John Steinbeck del 1939 che narra le vicissitudini della famiglia Joad, costretta a spostarsi dal natio Oklahoma fino in California a causa della grave crisi economica che colpì soprattutto la parte del Sud-Est degli Stati Uniti negli anni ’30. Ma il tutto si rivela essere, alla fine, una trovata per ingaggiare quanti più lavoratori per la stagione estiva pagandoli poco quanto niente; le migliaia di famiglie arrivate in California sotto la promessa di posti di lavoro sono guardate con disprezzo dalle persone del posto, e sono costrette a vivere in accampamenti sovraffollati. La stessa famiglia Joad si sgretola: i nonni, simbolo dell’attaccamento dell’uomo alle proprie origini, muoiono entrambi, il padre perde l’autorità; l’unica che rimane come punto di riferimento è la mamma, che pur avverte lo sfaldamento: “Una volta” dice a Tom, il vero protagonista del romanzo, “quando s’era sul nostro, la terra serviva a tenere la famiglia unita. […] Adesso è lo sfacelo. […] Non c’è più niente in cui credere. No, Tom, non andartene; rimani, e aiutaci!”. Alla fine, comunque, Tom è costretto a partire: ha ucciso un uomo che, a sua volta, aveva ucciso il predicatore amico di famiglia dei Joad; il celebre dialogo d’addio tra mamma e figlio è stato di ispirazione per Springsteen, che nel 1995 ha scritto una canzone intitolata, non a caso, The Ghost Of Tom Joad, in cui il protagonista del romanzo di Steinbeck diviene simbolo di tutti coloro che lottano contro ogni tipo di ingiustizia, sia essa sociale, razziale o culturale. L’apertura è affidata ad immagini che richiamano l’esodo (‹‹Uomini a piedi lungo i binari della ferrovia diretti verso un posto senza ritorno, […] famiglie che dormono in macchina nel Sud-Est, senza casa, senza lavoro, sena pace, senza riposo››), prima di arrivare al punto cruciale:
Tom disse: ‹‹Dovunque c’è un poliziotto che picchia un ragazzo
Dovunque c’è un neonato che piange di fame
Dovunque si combatte contro il proprio sangue e si respira odio
Cercami, mamma, sarò lì
Dovunque c’è qualcuno che deve lottare per un posto dove restare
O per un lavoro decente o per una mano d’aiuto
Dovunque c’è qualcuno che combatte per essere libero
Guarda nei suoi occhi, mamma, mi vedrai››
L’intera vicenda della famiglia Joad è significativa di quanto il mito della terra promessa sia in realtà solo un sogno; proprio come gli Ebrei (il romanzo è pieno di riferimenti al Cristianesimo, e in particolare il titolo rimanda ad un passaggio biblico dell’Apocalisse) i Joad sono in marcia per raggiungere la loro terra promessa; inoltre, il predicatore Casy può essere paragonato a Cristo: quando si mettono in marcia, infatti, i Joad sono dodici più Casy, tredici in totale, numero che rimanda ai dodici apostoli e, appunto, Gesù; le ultime parole del predicatore (“Non sapete quello che fate”) riecheggiano quelle dette da Cristo prima di morire (“Perdonali, padre, perché non sanno quello che fanno”); e, infine, Tom diventa a sua volta discepolo di Casy dopo la morte di quest’ultimo (“ ‘Tom,’ ripeté la mamma ‘cosa pensi di fare?’ ‘Quello che faceva Casy’ ”).
IL CONFINE TRA SOGNO E REALTÀ
Dopo la Prima Guerra Mondiale gli Stati Uniti avevano una situazione migliore di quella Europea: oltre a non aver combattuto in patria, la guerra era stata sostanzialmente una forma di investimento economico, poiché tutti gli Stati si erano indebitati. Dopo una piccola crisi economica, che durò fino al 1922, ci fu infatti una forte ripresa economica, che caratterizzò tutto il periodo e che valse al decennio il soprannome di Roaring Twenties. I tre governi repubblicani che si succedettero attuarono una politica fortemente isolazionista e introdussero il liberismo economico più sfrenato; come conseguenza, si ebbe un’impennata dell’attività industriale (soprattutto nei settori chimico, meccanico e siderurgico, anche se restarono in crisi quello tessile e agricolo), e si iniziarono a produrre i beni durevoli, come elettrodomestici e automobili, di cui, proporzionalmente all’aumento della domanda, crebbe anche la produzione, di circa il 40%. Inoltre, anche la massa beneficiò di questo alto guadagno dell’industria: l’inflazione si frenò, e aumentò il potere d’acquisto. Tutto questo contribuì a definire quell’ american way che diventerà simbolo degli interi anni ’20: si diffusero il benessere, il jazz, il cinema e le donne cominciarono a lottare per avere dei diritti paritari; tuttavia, c’era pur sempre una tradizione puritana che doveva essere rispettata: i pensieri così si estremizzarono, e chi ne beneficiò fu lo Yankee (l’Americano bianco), che fece corrispondere la propria identità a quella dell’intera nazione. In questo periodo nacque anche il Ku Klux Klan, gruppo che aveva l'intento di raccogliere denaro e combattere per mantenere le tradizioni statunitensi minacciate dal crescente numero di cattolici, ebrei, negri e immigrati e che, benché predicasse il razzismo, arrivò a contare 4 milioni di membri in questi anni. Venne introdotto inoltre anche il proibizionismo con il diciottesimo emendamento, questo certamente retaggio della mentalità puritana, che vedeva nell’alcol la causa di tutti i mali della società. Tuttavia, Le leggi proibizioniste non riuscirono a ridurre il consumo di sostanze alcoliche, e l'unico reale effetto che sortirono fu quello di creare un'enorme traffico clandestino. Ben presto nell'ambiente del commercio illecito comparirono le figure dei rumrunners (trafficanti di rum) e bootleggers (contrabbandieri), le quali spalleggiate da bande mafiose, passate poi alla storia con il nome di "gang", smerciavano in tutto il paese gli alcolici di importazione, prevalentemente dal Canada, e quelli di produzione interna. La violazione del diciottesimo emendamento era punita come reato federale e ben presto l'applicazione del proibizionismo passo dal semplice "far rispettare una legge" ad una vera e propria guerra senza quartiere contro i trafficanti di liquori e contro le famiglie mafiose. Basti pensare che ogni città era divisa in territori ed aveva almeno due famiglie mafiose, le quali, spesso, non esitavano ad assalirsi per le strade. Le famiglie mafiose degli anni venti anni avevano tutte origine dai gruppi poveri di immigrati europei, la maggior parte delle volte di origine italiana o irlandese (un buon esempio può essere il film C’era Una Volta In America, di Sergio Leone, ambientato proprio in quegli anni, che racconta l’ascesa e la caduta del gangster David "Noodles" Aaronson, interpretato da Robert De Niro).
Tutto questo costituisce il background sul quale è ambientato il più famoso romanzo di Francis Scott Fitzgerald, The Great Gatsby; ambientato a New York e a Long Island durante l'estate del 1922, è la storia di Jay Gatsby, che, inviato a Louisville per un addestramento militare, si era innamorato di Daisy Fay, una ereditiera di diciotto anni, dalla quale era ricambiato. Così, quando Gatsby deve partire per le armi i due si giurano eterna fedeltà. Ma quando Gatsby, che si trova in Europa, viene a sapere che Daisy ha sposato un ricco finanziere di Chicago, Tom Buchanan, giura di riconquistarla, e da quel momento in poi ogni suo sforzo sarà dedicato a questo obiettivo, convinto com’è che il suo sogno si trasformerà in realtà. Vicino di casa di Gatsby – nonché narratore della vicenda – è Nick Carraway, conformista e moralista, che rappresenta il mondo opposto a quello di Gatsby ma che riconoscerà: "C'era in Gatsby qualcosa di splendido, una sensibilità acuita alle promesse della vita". Come Nick sia attratto dal mondo del suo vicino di casa appare evidente dal fatto che egli, di notte, osserva l’uomo in piedi davanti alla villa tendere le braccia con un gesto di desiderio verso la "luce verde" che brilla nella notte. Quella luce, come scrive Rollo May, "è simbolo del mito americano: essa allude a nuove potenzialità, nuove frontiere, la nuova vita che ci attende dietro l'angolo [...] Non esiste destino; se esiste, lo abbiamo costruito noi stessi [...] La luce verde diventa la nostra più grande illusione... nasconde i nostri problemi con le sue infinite promesse, e intanto distrugge i nostri valori. La luce verde è il mito della Terra Promessa”. Alla fine, però, Gatsby viene ucciso dal marito dell’amante del suo rivale, a causa di uno scambio di persona; al suo funerale non partecipa nessuno, nonostante fossero stati molti quelli che, ogni giorno, partecipavano alle sue feste. Dopo il funerale di Gatsby Nick riflette sull'America: in questo modo la tragedia di Gatsby viene ad identificarsi con la perdita dei miti e la fine del sogno americano. L'ultima sera prima del suo ritorno a casa Nick scende in spiaggia e si stende sulla sabbia lasciandosi andare ai ricordi; gli torna così alla mente la capacità di meravigliarsi di Gatsby: «E mentre meditavo sull'antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all'estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C'é sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia ... e una bella mattina... ». In questi puntini di sospensione si sente l'attimo di disperazione di Nick e poi la ricerca di un mito che dia senso all'assurdità dell'esistenza. Il romanzo si conclude con un'ultima frase che sembra essere un poscritto: «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».
Questa stessa riflessione, in accenti ovviamente diversi e carica delle conseguenze di un pensiero che prende le mosse proprio dalla caduta del mito di una terra promessa, viene sviluppata da Springsteen in canzoni quali Racing In The Street e Jackson Cage. Accettato oramai il fatto che ‹‹ci sono cose che si possono trovare solamente nelle zone buie ai margini della città›› (Darkness On The Edge OF Town), lo sguardo dello storyteller si rivolge adesso alle vite di quanti fanno di tutto per condurre un’esistenza onesta. La storia del protagonista di Racing ben dipinge questa mutata visione: lavora duro ogni giorno, torna a casa, si lava e va a gareggiare in strada; non ha amici né famiglia. È completamente solo, incapace di cambiare una vita che alla fine accetta e, anche quando una luce entra nella sua esistenza, anche quando ha l’occasione di redimersi, non lo fa, e continua a gareggiare.
Battiamo il nord-est dello stato prendendo al volo
Ogni occasione che ci capita
Quando la pista finisce continuiamo per strada
Dalle corsie d’emergenza all’interstatale
Alcuni ragazzi smettono di vivere
E cominciano a morire lentamente, un poco alla volta
Altri invece ritornano a casa dal lavoro
Si danno una lavata e vanno a gareggiare in strada
[…] L’ho incontrata su un percorso tre anni fa
In una Camero con questo damerino di Los Angeles
Mi sono lasciato quella Camero alle spalle
E ho portato via quella ragazzina di lì
Ma adesso i suoi occhi sono segnati dalle rughe
E la notte piange finché non s’addormenta
Quando rientro in casa ogni luce è spenta
Mi sussurra: ‹‹È andato tutto bene tesoro?››
Se ne sta seduta sulla veranda della casa di suo padre
Ma tutti i suoi bei sogni sono stati infranti
Di notte fissa il vuoto
Con gli occhi di chi odia soltanto per il fatto di essere nata
Per tutti gli sconfitti senza nome e gli angeli della Hot Rod
Che rombano in questa terra promessa
Stanotte io e la mia piccola correremo fino al mare
E laveremo via questi peccati dalle nostre mani
Stanotte l’autostrada risplende
È meglio per te se ci giri alla larga
Perché l’estate è arrivata ed è il momento giusto
Per andare a gareggiare in strada.
L’impossibilità di redimersi si coniuga con una vita che si ripete sempre uguale, monotona, e che ben poche occasioni presenta per darle una svolta essenziale. Anche l’ambiente contribuisce a rinchiudere il personaggio in questa gabbia immaginaria, fatta di opinioni, di convinzioni, di modi di agire dettati dall’abitudine e dal dover trovare un modo per sopravvivere. In Jackson Cage si ritrova tutto questo: la protagonista è stata completamente assorbita dall’ambiente che la circonda, ormai si comporta come tutti gli altri, ha inesorabilmente perso quell’eccezionalità che la contraddistingueva:
[…] Puoi provarci con tutte le tue forze
Ma ti viene ricordato ogni notte
Che sei stato giudicato e che ti hanno condannato
A vivere giù nella prigione di Jackson
I giorni finiscono in azioni inutili
Soltanto lame incrociate sul campo di battaglia
Accettare queste sconfitte significa arrendersi senza sapere
Perché si è venuti al mondo per una tale vita di miseria
Domani è sempre un altro giorno
Ed è sempre andata in questo modo
Ragazzina, è troppo tempo che vivi in questo posto
Riesco a dirlo dal modo in cui ti muovi che appartieni
Alla prigione di Jackson
E non importa proprio cosa tu possa dire
Sei abbastanza forte per reggere il loro gioco
O farai semplicemente il tuo tempo e sparirai nella prigione di Jackson?
Il tempo scorre ripetitivo, e scalfisce in questo modo i sogni, le speranze e le promesse. Alla fine è il narratore stesso a trarre la conclusione: ‹‹Be’, cara, riesci a capire il modo in cui trasformano un uomo in un estraneo da abbandonare quaggiù, nella prigione di Jackson?››. L’interrogativo rimarrà ovviamente senza risposta: la realtà ha assorbito anche la capacità della donna di fornire una ragione, di riflettere da sola.
Chi si rivolta contro la prigione che attanaglia è invece Travis Bickle, interpretato da Robert De Niro nel film Taxi Driver del 1976 di Martin Scorsese. Travis è un ventiseienne alienato, isolato, depresso e frustrato, ex marine, congedato nel 1973. Soffre di una insonnia cronica che lo porta a lavorare come tassista notturno a New York. Di giorno spende il suo tempo libero guardando film pornografici in luridi cinema a luci rosse e guidando senza meta per i quartieri più tetri di New York. Travis è disgustato da quello che considera il degrado morale che lo circonda e quando Iris (Jodie Foster), una prostituta di 12 anni, entra una notte nel suo taxi cercando di fuggire dal suo pappone, Travis diventa ossessionato dall'idea di salvarla dal suo destino. La ragazza però non sembra affatto intenzionata a farsi aiutare, spiegando che il suo pappone si prende molta cura di lei. Travis cerca di convincerla a tornare a casa dai suoi genitori per riprendere gli studi, ma i suoi tentativi sono vani. Così, sempre più solo e senza speranza, decide di comprare delle pistole e con queste di uccidere il senatore Palantine durante un comizio all'aperto: perché egli rappresenta tutta l'ipocrisia della società statunitense, i nemici che ha sempre tentato di combattere e che non ha mai avuto il coraggio di affrontare. Viene però subito intercettato dalle guardie del corpo del senatore e scappa via. Disperato, Travis si reca da Iris dove spara al suo pappone Sport, poi sale verso la stanza di Iris e uccide brutalmente l'affittacamere, Sport e un cliente di Iris. Infine cerca di suicidarsi ma non ha più munizioni, perciò si siede su un divano e aspetta l'arrivo della polizia. Viene celebrato come un eroe, con grandi titoli su tutti i giornali; gli stessi che, se fosse riuscito nell’intento di uccidere il senatore, l’avrebbero condannato senza alcuna ombra di dubbio; appare quindi evidente il gioco a specchio tra sogno e realtà, che si scambiano di ruolo senza che il protagonista abbia la possibilità di opporvisi. A conferma di questo, i critici hanno visto in Taxi Driver una sottile e celata critica al Vietnam; lo stile di vita rude e la scelta di un impiego poco pagato e senza sbocchi evocano le esperienze di molti veterani che hanno sofferto del disturbo post traumatico da stress, persone che hanno subito disordini mentali e fisici e che non sono state ricompensate dalla società e dal governo per quello che hanno dato durante le guerre. Quella di Travis è una rivolta contro quello stesso paese che ha servito in guerra, ed è una ribellione anche contro l’ipocrisia, il falso perbenismo, la corruzione e il degrado morale che egli vede intorno a sé. È un mondo che non riconosce più come suo, nel quale delle ragazzine finiscono a fare le prostitute soltanto perché è la via più facile per risolvere i problemi, e sembrano non rendersi conto fino in fondo di quel che fanno. È tutto questo che Travis rifiuta, e la follia omicida che si scatena in lui vuol essere un modo per cambiare le cose, modo che è destinato a fallire: la società ingloba, divora il suo avversario, lo trasforma in un cittadino modello, un eroe nazionale a cui rendere omaggio, cosa che invece non fa con i reduci, con chi, cioè, quella patria l’ha davvero difesa (ma di questo si parlerà più diffusamente in seguito). Ma anche questo tentativo della società perbenista fallirà: lo stesso Scorsese ha commentato i momenti finali del film dicendo che il rapido sguardo quasi nevrotico di Travis allo specchietto rappresenta la possibilità che Travis possa soffrire di nuovo di depressione e scatti d'ira in futuro. Per questo motivo il finale quasi aperto è stato paragonato a quello di A Clockwork Orange (Arancia meccanica) di Stanley Kubrick, in cui Malcolm McDowell nei panni di Alex DeLarge sembra riconquistare il proprio lato sociopatico nella sua battuta finale: «Ero guarito, eccome!».
Deve fare conti con la realtà anche il narratore di The Promise, canzone composta da Springsteen nel 1976 e rimasta inedita fino al 1999. ‹‹Ho trovato un lavoretto giù a Darlington›› racconta ‹‹ma certe sere non ci vado, certe sera vado al drive-in e qualche volta me ne sto a casa››. La sua è la storia di chi ha tentato di dare una svolta alla propria vita, ha covato un sogno segreto di felicità, proprio come Gatsby, ma alla fine si è dovuto arrendere, le sue ali spezzate da un nemico invisibile, che non si può combattere; si sente sconfitto, abbattuto, non ha più voglia di lottare.
Mi sentivo come se stessi portando le anime spezzate
Di tutti coloro che avevano perso
Quando la promessa si infrange continui a vivere
Ma è come se menti a te stesso
Come quando dici la verità, e non cambia niente
Qualcosa nel tuo cuore si spegne
Ho inseguito quel sogno fino alle pianure del sudovest
Che vanno a morire in locali da due soldi
E quando la promessa si infranse ero troppo lontano da casa
Dormivo nel sedile posteriore di una macchina presa a noleggio…

SCAMBIARE QUESTE ALI CON DELLE RUOTE: LA VITA ON THE ROAD
Una delle prime immagini che vengono in mente parlando dell’America è senza dubbio quella di una grande strada che corre fino all’infinito, arrivando a fondersi con la linea dell’orizzonte o magari semplicemente scomparendo. Per capire da dove venga questa suggestione è necessario fare alcune considerazioni: innanzitutto, come si è avuto modo di analizzare all’inizio, bisogna considerare che gli Stati Uniti si sono sempre presentati, fin dal 1500, come l’ignoto, la controparte irrazionale di sé che l’uomo cerca sempre di tenere nascosta agli altri. A maggior ragione in tempi in cui si conosce tutto, con un rapido click si può accedere a qualsiasi informazione e una notizia giunge alle nostre orecchie un minuto dopo che il fatto a cui si riferisce sia avvenuto, a maggior ragione l’uomo si sente attratto dal viaggio senza meta, dal non preoccuparsi eccessivamente del percorso, di dove pernottare, di cosa mangiare. È questo che spinge l’uomo a abbandonare tutto, a saltare in macchina e a partire, senza programmi e senza progetti; è, anche, il bisogno di lasciarsi alle spalle i problemi, le preoccupazioni che ogni giorno la vita quotidiana ci mette di fronte per abbandonarsi alla spensieratezza, ritornando, se si vuole, un po’ bambini. Ma, aldilà di questo, c’è alla base del discorso una sostanziale voglia di libertà che sempre ha caratterizzato l’uomo e che, evidentemente, in tempi moderni egli ha sempre più sentito sfuggirgli via di mano, allontanarsi fino a diventare solamente un concetto astratto e di difficile realizzazione. Spinto quindi dal bisogno fisiologico di sentirsi libero, l’uomo ha cercato di crearsi i mezzi per raggiungere l’obiettivo tanto desiderato, e l’ha fatto in tanti modi: con la droga, col rock ‘n’ roll, con la speranza di fuga riposta in una macchina. Sono lati diversi di una stessa medaglia, alla fine; una medaglia fatta di leghe quali la ribellione, la voglia di libertà, il cambiamento. E non è un caso che siano gli anni ’50 il periodo in cui si sviluppa tutto questo: dopo la distruzione portata dalla Seconda Guerra Mondiale la gente sentiva il bisogno di non ripetere gli stessi errori, di fondare dei nuovi valori, per dirla con Nietzsche, di dare un segno importante di cambiamento. Ed è altrettanto ovvio che la spinta di questa nuova rivoluzione, se così la si può chiamare, sia venuta dal paese che più di ogni altri si è sempre configurato come depositario della Libertà, patria di nuove possibilità e luogo dove i sogni diventano realtà. Ma la vera forza dell’idea sottesa alla grande strada è stata quella di potersi coniugare con un territorio per natura altrettanto incline al cambiamento, altrettanto grande e immenso, altrettanto disposto ad ospitare vagabondi senza meta e sempre in corsa.
Non c’è migliore interpretazione di quanto detto del romanzo – molto autobiografico – On The Road di Jack Kerouac, che racconta la storia di un incontro, quello tra Sal Paradise, giovane scrittore in erba cresciuto nel Est, e Dean Moriarty, ragazzo appena uscito da un riformatorio del West, destinato a cambiare la vita del narratore (sotto il cui nome di cela quello di Kerouac stesso, così come Dean rappresenta Neal Cassady, poeta beat e amico del primo). I due si incontrano a New York, e quando dopo qualche settimana Dean parte in direzione Denver, Sal decide di seguirlo, per il suo primo viaggio nel continente, a cui ne seguiranno altri in compagnia dell’amico. ‹‹Nonostante la zia mi avesse avvertito che mi avrebbe messo nei guai, sentivo una nuova voce che mi chiamava e vedevo un nuovo orizzonte, e ci credevo, giovane com'ero; e che importanza poteva avere qualche piccolo guaio, o che Dean mi rifiutasse alla fine, come infatti sarebbe successo, su marciapiedi di fame e letti di malattia - che importanza poteva avere? Ero un giovane scrittore e volevo andare lontano››: in questa frase viene sintetizzato il nocciolo della vicenda; non c’è un motivo ben preciso che spinge Sal a partire, se non la voglia di sentirsi libero, di sentirsi vivo. Dean quindi diventa quasi un pretesto, una molla che fa scattare l’azione: come ha detto il critico letterario Emanuele Trevi, è “una specie di talento che poi non si espresse in niente, come spesso capita a tanta gente affascinante. Poteva diventare un bravo poeta, però era essenzialmente un maestro dell’arte della vita”. Dean entra lentamente nella vita di Sal, e, anche indirettamente, le dà una scossa: “un uomo affascinante irrompe nella vita di qualcuno che è alla ricerca di qualcosa - di una verità, una concretezza, un’avventura – ma che però ha ancora un’esistenza un po’ piatta”, come ha scritto Trevi; e, quel che più importa, ci riesce. Sal abbandona tutto e lo segue, si butta in una vita che alla fine dei conti non sente proprio sua, non gli si addice, ma lo fa, perché è consapevole che, in quel momento, ne ha bisogno. Quando, dopo due anni di viaggi senza meta, decide di tornare a casa, al suo mondo, dalla sua famiglia, all’inizio le cose vanno bene; ma Dean ritorna, e con lui il fascino della vita on the road. Ma Sal è ormai cresciuto, se non fisicamente, intellettualmente: vorrebbe partire, ma gli viene impedito e, quel che più è peggio, non da un divieto, ma da una scelta. Come se fosse finito il momento di giocare, il momento di viaggiare, e fosse iniziato il momento di diventare grandi. La sera in cui Dean ricompare, Sal deve andare a teatro con un amico; gli chiede se Dean può accompagnarli, ma gli viene risposto di no: Remi Boncoeur non è tipo da farsi affascinare, è uno che ‹‹voleva che le cose si facessero nel modo giusto››, e non come le faceva Dean. Sal sale in macchina, a malincuore per dover lasciare l’amico partire da solo; supplica ancora una volta Remi di portare con loro Dean, ma ancora una volta riceve un rifiuto: ‹‹No, non l’avrebbe permesso, gli piacevo ma non gli piacevano i miei stupidi amici. Stavo per ricominciare nuovamente a rovinargli le sue serate programmate come avevo fatto a San Francisco nel 1947››. Mentre la macchina parte, Sal si gira a guardare per l’ultima volta Dean, e i suoi pensieri d’addio, carichi di un senso di colpa mai esplicitato davanti agli altri, fanno calare il sipario su tutto un mondo fatto di strade, sogni e macchine lanciate a tutta velocità nella notte buia:
‹‹Il vecchio Dean se n’è andato, pensai, e ad alta voce dissi: “Gli andrà bene”. E via verso il triste e svogliato concerto del quale non avevo nessun desiderio, e non smisi nemmeno per un attimo di pensare a Dean e a come fosse salito sul treno e si fosse fatto più di cinquemila chilometri sopra quell’orrida terra senza nemmeno sapere perché fosse venuto, se non per vedere me. E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi cieli sopra il New Jersey e sento tutta quella terra nuda che si srotola in un’unica incredibile enorme massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità, e so che a quell’ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui si lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio e Winnie Pooh?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue fioche scintille sulla prateria proprio prima della notte fonda che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge le vette e abbraccia le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean Moriarty, penso perfino al vecchio Dean Moriarty, il padre che non abbiamo mai trovato, penso a Dean Moriarty››.
Simile alla vicenda di Sal e Dean è quella di Wyatt ‘Capitan America’ (Peter Fonda) e Billy (Dennis Hopper), due motociclisti in viaggio dalla California a New Orleans attraverso il Sud-est Americano nel film del 1969 Easy Rider. Tuttavia, i tempi sono cambiati e non se ne può non tenere conto; se l’America di Sal e Dean si configurava come un viaggio verso l’ignoto, verso la terra promessa della California, quello di Wyatt e Billy prende le mosse proprio dalla costa Ovest per terminare in Florida; inoltre, mentre On The Road è costellato da una miriade di personaggi che assumono via via più o meno importanza durante la storia, Easy Rider si presenta piuttosto come un viaggio solitario, nella quale l’unico elemento di novità che interviene ad un certo punto, vale a dire l’avvocato George Hanson (Jack Nicholson), rimarrà ucciso da una rappresaglia notturna organizzata da alcuni uomini del paese. Ed è proprio poco prima che questo accada che c’è il discorso chiave di tutto il film tra George e Billy, in cui si evidenzia la differenza sostanziale tra ciò che si dice e ciò che si pensa realmente, tra il concetto, astratto, di libertà e l’essere veramente libero:
‹‹Lo sai? Questo era proprio un gran bel paese… e non riesco a capire cosa gli è successo››
‹‹È che tutti hanno paura, ecco cos’è successo… noi non possiamo neanche andare in un alberghetto da due soldi, voglio dire, proprio di quelli da due soldi, capisci?… credono che si vada a scannarli o qualcosa… hanno paura…››
‹‹Sì, ma non hanno paura di voi… Hanno paura di quello che voi rappresentate…››
‹‹Ma quando! Per loro noi siamo solamente della gente che ha bisogno di tagliarsi i capelli!››
‹‹Ah no… Quello che voi rappresentate per loro è la libertà…››
‹‹E che c’è di male nella libertà? La libertà è tutto!››
‹‹Ah, sì, è vero, la libertà è tutto, d’accordo, ma… Parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse… Voglio dire che è difficile essere liberi quanto ti comprano o ti vendono al mercato… E bada di non dire a nessuno che non è libero, perché allora quello si darà un gran daffare uccidendo e massacrando per dimostrarti che lo è… Ah certo, ti parlano, e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale, ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura…››
‹‹Eh, la paura però non li fa scappare…››
‹‹No, ma li rende pericolosi…››
Alla fine il viaggio verso la libertà di Wyatt e Billy diventerà un viaggio di morte; se On The Road si chiude con i due personaggi in vita, che si salutano per l’ultima volta, e cela un che di malinconia tra le sue righe, il finale di Easy Rider lascia piuttosto spazio allo sgomento, all’insicurezza, allo sconcerto. Come, in un certo senso, aveva profetizzato George, vedere un individuo veramente libero spaventa la gente; i due vengono uccisi da due contadini su un furgoncino che, infastiditi da questi due personaggi ‘fuori dagli schemi’, prima cercano di farli uscire di strada e poi, quando non ci riescono, sparano Billy con un fucile. Wyatt li insegue, ma i due fanno fuoco nuovamente centrando il serbatoio della moto, che esplode. Il film si conclude così, con la telecamera che progressivamente si alza verso il paesaggio, verso il cielo, come a voler calare il sipario su un’intera epoca, ormai da accantonare.
Qualche anno dopo – siamo nel 1975 – esce un disco che riprende ed attualizza l’ideale della vita on the road, analizzandolo in tutte le sue sfaccettature; in otto canzoni, Springsteen si fa carico in un sol colpo del romanzo di Kerouac e del film di Hopper e canta la propria voglia di scappare da un buco di periferia, di trovare ciò che vuole e di iniziare una vita nuova, diversa, più entusiasmante. La canzone simbolo dell’album omonimo – che può essere considerato a tutti gli effetti una pellicola, perché, come spiega lo stesso Springsteen, ‹‹sono otto storie che potrebbero svolgersi tutte in una sola sera d’estate›› - è Born To Run. La canzone si apre con una sorta di racconto della vita di un noi generico: ‹‹Di giorno lottiamo per le strade di un effimero Sogno Americano, di notte corriamo tra castelli di gloria a bordo di macchine suicide››, che subito lascia il posto alla descrizione del problema, costituito da un ambiente ostile da quale si deve necessariamente fuggire: ‹‹Questa città ti strappa fuori le ossa dalla schiena, è una trappola mortale, è un invito al suicidio; dobbiamo andarcene finché siamo giovani, perché vagabondi come noi, piccola, sono nati per correre››. Nella strofa successiva il protagonista invita con sé Wendy: il bisogno di un contatto umano, di avere compagnia in questo viaggio senza meta – e forse senza fine – viene descritto come necessario, il ragazzo ha bisogno di un appoggio, perché, dice, ‹‹sono soltanto un corridore spaventato e solitario››. Così, dopo un bellissimo e sfuggente ritratto della città – quasi una veloce ripresa, nella quale si vedono ragazze pettinarsi guardandosi negli specchietti retrovisori, ragazzi che provano a sembrare dei tipi tosti, la spiaggia, il Palace – nell’ultima strofa il protagonista – e lo stesso Springsteen – sono decisi a lasciarsi la città dei perdenti alle spalle, pronti per vincere:
L’autostrada è intasata da eroi sconfitti
Con la marcia ingranata su un’ultima possibilità
Sono tutti in fuga, stanotte,
Ma non è rimasto alcun posto dove nascondersi
Insieme, Wendy, sopporteremo la tristezza
Ti amerò con tutta la forza che ho nell’anima
Un giorno, bimba, non so quando
Raggiungeremo quel posto dove vogliamo davvero andare
E cammineremo nel sole
Ma fino ad allora i vagabondi come noi, piccola, sono nati per correre.
Tredici anni dopo, lo storyteller avrà modo di riflettere ancora su questa canzone – che lo ha accompagnato per tutto questo tempo – e dirà, presentandola in una nuova veste acustica durante il tour, alcune cose che si riallacciano mentalmente sia al discorso tra George e Billy sulla libertà individuale sia che possono essere considerate una specie di risposta all’ideale di vita proposto da Dean. “Canto questa canzone da quindici anni…›› racconterà ‹‹L’ho scritta che ne avevo ventiquattro… Le domande che mi facevo in questa canzone, be’, non so se ho trovato le risposte… Quando l’ho scritta parlavo di un ragazzo e di una ragazza che volevano salire su un’auto, e continuare a correre, non tornare mai indietro… Era una bella idea romantica, mi piaceva… Ma andando avanti negli anni e continuando a cantare questa canzone mi sono reso conto che, dopo aver messo tutte queste persone in tutte quelle macchine, avrei dovuto pensare ad un posto dove andare… E a quel punto ho capito che la libertà individuale diventa una cosa vuota e senza senso se vuol dire separarsi dalla comunità, dagli amici, dalla famiglia… Perciò adesso credo che in realtà quei due ragazzi cerchino dei contatti e dei legami, e credo che sia questo quel che stiamo facendo stasera… Questa è la canzone di due persone che cercano di trovare la via di casa…”

VIVERE IN MODO ONESTO: L’AMERICAN EVERYMAN
Nelle pagine di tanti libri, tra i versi di molte canzoni, nelle trame di innumerevoli film emerge tuttavia la vita dell’everyman, dell’uomo comune cioè, e non dell’uomo eccezionale, di colui che sceglie un’esistenza perennemente in corsa o via dicendo. Vengono fuori le vite di gente comune, fatte di ritmi quotidiani, di un lavoro stabile, di una famiglia e perennemente uguali, almeno fino a che non interviene un fatto nuovo a stravolgere le loro esistenze e a segnare il passo. La letteratura che si occupa di questi aspetti spesso viene considerata però una sotto-cultura, un qualcosa di inferiore in quanto fa presa maggiormente sul grande pubblico, e, secondo molti, non è in grado di conservarsi nel tempo. Si pensi, ad esempio, ad autori come Stephen King, Dennis Lehane e così via, i cui libri hanno come protagonisti persone assolutamente comuni, impegnate nelle loro quotidiane esistenze tranquille. Il cinema e la musica, invece, colgono a piene mani da questo sostrato, e per loro il problema non si pone neanche, dacché, almeno in Italia, non si ritiene possano esser considerati al pari della letteratura. Esistono tuttavia delle eccezioni, costituite per esempio da Edgar Lee Master e Flannery O’ Connor, i cui lavori partono proprio dal racconto delle vite di gente comune. Nell’ Antologia Di Spoon River Lee Master traccia addirittura, in brevi epitaffi, le storie di un’intera comunità, raccontate da gli stessi cittadini: alcuni recitano le loro storie e i loro punti di svolta, altri fanno delle osservazioni della vita in generale, altri ancora si lamentano del trattamento riservato alla loro tomba, mentre pochi raccontano come sono morti in realtà. Parlando liberamente, senza motivo di mentire o senza aver paura delle conseguenze, costruiscono un quadro di vita nella loro città che comprende tutte le sue facciate. Il gioco delle parti tra i vari personaggi - ad esempio un brillante uomo di successo che ringrazia i suoi genitori per tutto ciò in cui è riuscito, e una donna in lacrime perchè questi è il suo figlio illegittimo - forma un mosaico di indiscussa bellezza. Il tema della vita dopo la morte riceve inoltre soltanto brevi riferimenti, e anche quando ci sono sembrano essere contraddittori. In apertura Lee Master inserisce quasi un prologo alle varie storie, intitolato La Collina:
Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley
Il debole di volontà, il forte di braccia, il buffone, l’ubriacone, l’attaccabrighe?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.
Uno morì di febbre
Uno bruciato in collina
Uno ucciso in una rissa
Uno morì in prigione
Uno cadde da un ponte mentre faticava per moglie e figli –
Tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.
Dove sono Ella, Kate, Mag, Lizze e Edith
Il cuore tenero, l’anima semplice, la chiassosa, la superba, l’allegrona? –
Tutte, tutte, dormono sulla collina.
Una morì di parto clandestino
Una di amore contrastato
Una fra le mani di un bruto in un bordello
Una di orgoglio infranto, inseguendo il desiderio del cuore
Una dopo una vita lontano a Parigi e Londra
Fu riportata nel suo piccolo spazio accanto a Elle e Kate e MAg –
Tutte, tutte, dormono, dormono, dormono sulla collina
Dove sono zio Isaac e zia Emily
E il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton
E il maggiore Walker che aveva parlato
Con i venerandi uomini della rivoluzione? –
Tutti, tutt, dormono, dormono, dormono sulla collina.
Li portarono figli morti in guerra
E figlie che la vita aveva spezzato
E i loro orfani, in lacrime –
Tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.
Dov’è il vecchio Jones, il violinista
Che giocò per novant’anni con la vita
Sfidando il nevischio a petto nudo
Bevendo, schiamazzando, infischiandosi di moglie e parenti
E danaro, e amore, e cielo?
Eccolo! Ciancia delle sagre di pesce fritto di tanti anni fa
Delle corse di cavalli di tanti anni fa a Clary’s Grove
Di ciò che Abe Lincoln disse
Una volta a Springfield.
Dopodichè lascia spazio alla narrazione in prima persona dei vari cittadini, storie di un qualsiasi paesino di provincia Americano in cui si intrecciano delinquenti e giudici, casalinghe e prostitute. Ad esempio Henry Layton narra la sua storia: nato da padre mite e madre violenta, egli sentiva di esser la somma di queste due metà contrastanti; ma quel che causò la sua rovina, dice, ‹‹fu il distacco delle due metà/ l’una mai parte dell’altra/ che mi ridusse un’anima senza vita››. Hod Putt racconta invece il momento in cui, stancatosi di ‹‹fatiche e miseria/ e vedendo che il vecchio Bill e gli altri si arricchivano/ una notte rapinai un passante dalle parti di Proctor’s Grove/ ma senza volere lo uccisi/ perciò fui processato e impiccato/ Fu il mio modo di fare fallimento/ Ora noi che siamo falliti ciascuno a suo modo/ riposiamo in pace fianco a fianco››. È lo stesso destino che attende Ralph, il protagonista della canzone Johnny 99 tratta dall’album Nebraska del 1982; una volta perso il posto a causa della chiusura della fabbrica dove lavorava, si mette in cerca di un lavoro ma non ne riesce a trovare nessuno. Inizia a bere, ed una notte, troppo ubriaco, prende una pistola e spara ad una guardia: è l’inizio della sua rovina; nessuno lo ascolta, nessuno vuole sentire le sue ragioni: è solo il colpevole, ed è questo che conta. Durante il processo scoppia un tafferuglio tra i familiari e gli altri cittadini, portano via la ragazza di Ralph, e il giudice gli chiede se vuol dire qualcosa prima di esser portato via. È l’unica occasione per redimersi, se non davanti a Dio, almeno davanti a sé stesso: l’accettazione della colpa passa per la consapevolezza del peccato. Così la voce di Springsteen canta:
Guardi, vostro onore, avevo dei debiti che nessun uomo onesto sarebbe riuscito a pagare
La banca stava usufruendo dell'ipoteca e si stava prendendo la mia casa
Questa non vuol essere adesso una giustificazione
Ma è stato soprattutto per questi motivi che impugnato quella pistola
Be', vostro onore, credo che a questo punto farei meglio a morire
E se riesce a giudicare un uomo dai pensieri che gli passano per la testa
Allora si sieda di nuovo su quella poltrona e ci ripensi, vostro onore, ancora una volta
E lasci che mi taglino i capelli e mi mettano tra i condannati a morte
D’altronde l’attrattiva per il crimine, non è una novità, ha da sempre costituito il volto oscuro del Sogno Americano; esemplare in questo senso la vicenda che sconvolse nel 1959 il paese, e che ha ispirato sia Badlands (La Rabbia Giovane), film del 1973 di Terrence Malick, sia Nebraska, canzone tratta dallo stesso album omonimo. È la storia di un ragazzo e una ragazza che dalla città di Lincoln, nel Nebraska, decidono di scappare dal padre di lei, avverso alla loro relazione, e, dopo averlo sparato, continuano in questa loro folle corsa uccidendo tutti gli ostacoli che gli si presentano attraverso lo stato e poi nel Wyoming orientale, per un totale di dieci persone. Nel film la storia, ovviamente romanzata, è ambientata leggermente più ad Ovest, ed è narrata dal punto di vista della ragazza, Holly (Sissy Spacek): in un primo momento i due provano a vivere in solitudine, in mezzo nella natura selvatica, ma l'idillio ha breve durata, e quando vengono scoperti iniziano una fuga per le praterie di South Dakota e Montana, durante la quale Kit lascia dietro di sè una scia di sangue. Alla fine, Holly decide di non seguire più Kit (Martin Sheen), che poco dopo si arrende; il film termina con un elicottero che porta via i due ragazzi, verso il carcere e la condanna a morte. A differenza del film, in cui la vicenda, seppur vista sotto il punto di vista della ragazza, viene narrata in maniera impersonale, e distaccata, in Nebraska la storia lascia spazio ad una riflessione più interiore da parte di Kit (che è il narratore), e dipinge un quadro profondamente realista e desolante. Il ragazzo ammette, con tutta sincerità: ‹‹Non posso dire di essere dispiaciuto per tutto quello che abbiamo fatto; se non altro, signore, io e lei ci siamo divertiti per un po’››, e poi, un attimo prima di morire, conclude:
Hanno stabilito che non sono degno di vivere
E che la mia anima deve essere gettata in quel grande vuoto.
Volevano sapere perché feci quel che ho fatto
Be’, signore, credo ci sia così tanta cattiveria in questo mondo…
Nell’analizzare il concetto di everyman è anche possibile evidenziare un profondo rapporto con la religione, e in special modo con quella cristiana, che emerge imponente nei racconti della scrittrice Flannery O’ Connor, molto attenta ai cosiddetti ‘lati oscuri’ della religione. Nel racconto A Good Man Is Hard To Find (Un Brav’Uomo È Difficile Da Trovare), per esempio, viene narrata la storia di una famiglia che, in viaggio per andare a trovare dei parenti, incappa in un noto ricercato appena evaso e nei suoi complici; mentre già all’orizzonte si delinea la tragica fine di ogni membro del gruppo (formato da padre, madre, due bambini e la loro nonna, che a due alla volta vengono portati in un bosco vicino), la nonna è l’unica che, seppur conscia del pericolo, tenta una sorta di mediazione con l’uomo, tenta di redimere l’uomo tramite la fede.
‹‹Voleva spiegare al balordo che doveva pregare, ma aprì e chiuse la bocca molte volte, prima che ne uscisse qualche suono. Finalmente si ritrovò a dire: “Gesù, Gesù!” intendendo: “Gesù vi aiuterà!”, ma, da come lo diceva, sembrava che bestemmiasse. “Sissignora” rispose il balordo, come se fosse d’ accordo. “Gesù ha mandato tutto a gambe all’aria. È stato lo stesso, per Lui e per me, solo che Lui non aveva commesso delitti e invece hanno potuto provare che io ne avevo commesso uno, perché avevano le carte. […] Gesù è stato l’unico a risuscitare i morti. E non avrebbe dovuto farlo. Ha mandato tutto a gambe all’aria. Se ha fatto quel che ha detto, allora non ci resta che gettar tutto e seguirlo; se non l’ha fatto, allora non ci resta che goderci meglio che possiamo i pochi minuti che ci avanzano. Non c’è piacere al di fuori della cattiveria”››
Come il Balordo, anche il protagonista di Mean Streets, primo film di Martin Scorsese datato 1973, Charlie (Harvey Keitel) è in perenne conflitto tra la sua profonda religiosità e la vita sregolata che conduce; egli deve farsi strada nel suo ambiente violento, ha uno zio della malavita che lo protegge e gli affida piccoli compiti ma che vorrebbe per lui un lavoro di responsabilità. Charlie è troppo coinvolto nell'ambiente meschino in cui è cresciuto e che detesta e non riesce ad allontanarsi dallo scapestrato Johnny Boy con cui è cresciuto e che si mette sempre nei guai. Man mano che il film avanza, Johnny cova progressivamente istinti autodistruttivi ed inizia a non pagare i suoi creditori. L'equivalenza stabilita in Mean Streets tra l'inferno e il bar è definitiva: il rosso opprimente, la violenza, il sesso e l'alcool, il bar di Tony è il luogo della dannazione terrena, l'anticamera dell'inferno dove giocare ad esorcizzare l'inferno stesso. E Charlie, come la maggior parte degli eroi scorsesiani, è sospeso tra l'obbedienza alle regole della "famiglia" e scelte individuali che assumono un carattere sempre più sofferto, anche se sono sentite come l'unica strada verso una possibile salvezza dell'anima: ma aiutare fino in fondo Johnny Boy e l'amante epilettica Teresa, dopo il veto della famiglia, per Charlie rimane impensabile. Il suo eroe è San Francesco, ma Charlie non è capace allo stesso modo di spogliarsi definitivamente del suo legame con il potere (la famiglia) e di compiere in nome degli altri innanzitutto il sacrificio di se stesso.
Il legame con la malavita ritorna in un altro film di Scorsese, The Departed, del 2006, remake di Infernal Affaire del 2002. A differenza di altri lavori del regista che trattano la mafia Americana dall’interno (Goodfellas, Casino), in questo bene e male si scambiano di posto: un poliziotto (Leonardo Di Caprio) viene infiltrato nella malavita, e il boss Costello ha a sua volta un infiltrato (Matt Damon) nella polizia. In un gioco sempre più pericoloso, tra omicidi e soffiate, alla fine il film si conclude col trionfo finale – anche se in ritardo – della giustizia, del bene.
Questa sorta di ricompensa finale non avviene invece nella canzone Atlantic City, anche questa tratta dall’album Nebraska del 1982. Springsteen narra in prima persona la storia di questo ragazzo in bilico tra una condotta onesta e la tentazione di fare soldi facili, il tutto sullo sfondo di un New Jersey del tutto in mano alla mafia italo-americana. Nelle prime due strofe infatti vengono raccontati episodi di intimidazione, le azioni dei ragazzi del racket, la difficoltà della polizia di fare ordine. Le successive fanno luce sul protagonista, ne raccontano sommariamente la storia e i suoi progetti, le sue speranze per il futuro. Tuttavia, gli ultimi quattro versi rivelano la fine di tutte le buone intenzioni del ragazzo, sconfitto infine dal lato peggiore della sua anima:
Adesso sto cercando lavoro, ma è difficile da trovare
Quaggiù ci sono solo o vincenti o perdenti
Ed io non voglio trovarmi dalla parte sbagliata della barricata
Be’, mi sono stancato di finire sempre tra i perdenti
Perciò tesoro ieri notte ho incontrato questo tizio
E gli farò un piccolo favore…
Nella situazione opposta si trova il protagonista di Roulette, canzone che Springsteen scrisse nel 1979 a fronte degli eventi avvenuti in Pennsylvania, nella centrale nucleare di Harrisburg, dove si attesero due giorni prima di far evacuare la zona a seguito di un guasto ai sistemi di raffreddamento che aveva provocato una fuga di gas radioattivi. Ha un lavoro, una famiglia, una vita. All’improvviso è costretto a fuggire, ha appena il tempo di mettere in macchina quel che può, di prendere con sé sua moglie e i suoi bambini e di andar via. Si sente preso in giro, derubato, la sua vita non vale niente:
Mi sono lasciato alle spalle l’uomo che ero
Tutto ciò in cui credevo e che mi apparteneva
Ho cercato di trovare la mia strada da qualche parte che credevo sicura
Ma mi hanno bloccato al posto di blocco e mi hanno rimesso in carreggiata
Mi hanno arrestato ma sono riuscito a liberarmi e sono scappato via
Mi hanno detto che vogliono farmi qualche domanda ma credo abbiano altri piani
Adesso non so di chi fidarmi, non so a chi credere
Dicono che vogliono aiutarmi ma con le stupidaggini che continuano a dirmi
Credo che questi tizi vogliano soltanto continuare a giocare
Roulette, con la mia vita
Roulette, con i miei bambini e mia moglie
Roulette, la pallottola è inserito
Roulette, chi è lo sconosciuto sfortunato
Roulette, sorpresa, sei morto!
Roulette, hai la pistola puntata alla testa
Roulette, la pallottola sta per essere sparata
Roulette, grilletto premuto, sentito il click?
Non c’è più pericolo…
Di fronte a tale perdita di valori, l’ everyman si sente un estraneo a sé stesso, non riesce a riconoscersi nella propria immagine riflessa nello specchio. Questo tema, non certo marginale, compare sempre più spesso ogni qual volta l’uomo si trova da solo di fronte a tempi bui, allo smarrimento storico ed esistenziale che caratterizza ogni vita. È il caso, per esempio, dello sceriffo Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones) nell’ultimo film dei Coen, No Country For Old Man (Non È Un Paese Per Vecchi); coinvolto in una caccia all’ultima battuta con un pericoloso e psicopatico killer – che a sua volta insegue un veterano impossessatosi di una ingente quantità di denaro destinata al killer – egli si rende progressivamente conto di quanto le cose siano andate degenerando pian piano, senza che uno se ne accorga. Ad un certo punto, parlando con il suo vice, dice:
‹‹Ecco, la settimana scorsa hanno scoperto una coppia, in California, che affittava camere ai vecchietti, poi li ammazzava, li seppelliva in giardino, e intascava le loro pensioni. Ah, e prima li torturava, non so perché, forse il televisore si era guastato. E la cosa è andata avanti finché, testuali parole, “i vicini si sono allarmati quando hanno visto un uomo scappare con indosso solo un collare per cani”. È impossibile inventarsi una notizia così: provaci, non ci riesci. Questo c'è voluto per attirare l'attenzione di qualcuno: scavare fosse in giardino era passato inosservato…››
È vero, se ci si pensa su. È vero che le cose stanno andando progressivamente a rotoli. Ed è altresì vero che l’uomo che se ne accorge si sente diverso, inadeguato, incapace di adattarsi ai tempi attuali. La figura di Tommy Lee Jones che cavalca da solo nel deserto Texano fa venire in mente quella di un vecchio cowboy che abbandona la propria città, ormai diventata fantasma. Con un po’ di immaginazione si riesce a sentire il vento caldo soffiare, il sole tramontare lentamente all’orizzonte. Sembra rivivere un vecchio western: lo stesso The Searchers (Sentieri Selvaggi), ma anche Pat Garret & Billy The Kid di Sam Peckinpah.
Ed è in fondo lo stesso sentimento che spinge Anguilla, il protagonista del romanzo La Luna E I Falò di Cesare Pavese, a volersi riappropriare della propria identità, delle proprie origini. Nel romanzo i luoghi, i personaggi e gli eventi vengono narrati con una forte partecipazione e con accenti malinconici e rimandano all’immutabile ciclo della natura, simboleggiato nel titolo del romanzo dalla luna e dai falò propiziatori del raccolto, accesi dai contadini sulle colline durante la notte di San Giovanni. ‹‹Così questo paese, dove non sono nato›› narra in apertura Anguilla ‹‹ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l'ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l'uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C'è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via››. Tuttavia questo si dimostrerà impossibile: lui stesso è un trovatello, un vagabondo per natura, che sente inesorabile il richiamo del viaggio. Così comincia a sentire, da quando rimane a fissare il cielo aperto, che deve viaggiare e conoscere il resto del mondo (‹‹volevo andare lontano,[…] ma che sia lontano, che nessuno del mio paese ci sia stato››). Dovunque vada però – Genova, diverse città in America e di nuovo la campagna – non si trova a suo agio, sentendosi solo e perduto e vedendo la sua vita un fallimento. Alla fine dunque anche Anguilla si deve arrendere alla realtà: il suo sogno di ristabilirsi nel vecchi paese fallisce, ed egli riparte.
CHI SARÀ L’ULTIMO A MORIRE PER SBAGLIO?
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale in Europa scese quella che il primo ministro inglese Winston Churchill ebbe modo di definire “cortina di ferro”: a seguito della suddivisione della Germania e della stessa Berlino in due sostanziali aree di influenza, una statunitense e l’altra russa, l’intera Europa si divise tra paesi vicini all’una o all’altra parte. Tale divisione decretò, conseguenzialmente, due diversi stili di vita, due diversi modi di intendere sia la politica sia l’economia. Il mondo Occidentale seguì un’economia di mercato (l’industria era privatizzata, c’era la libera concorrenza, vigeva il liberismo economico), e in politica c’erano diversi partiti che si confrontavano; nel mondo comunista, invece, l’economia era pianificata dallo Stato, che era il proprietario delle industrie, delle banche e del mondo finanziario; non esisteva la proprietà privata e in politica c’era un solo partito che non doveva essere contrastato, e che pretendeva di essere democratico (in quanto, secondo chi era al potere, rappresentava la maggioranza della popolazione, stando a quello che aveva detto Marx). Appare quindi evidente che non era possibile alcun tentativo di dialogo tra due mondi tanto diversi. Già nel 1944 l’allora presidente Americano Franklin Delano Roosevelt, preoccupato per le sorti del mondo, propose il cosiddetto Grande Disegno, secondo il cui bisognava ricostruire le basi dell’economia di mercato; nel luglio dello stesso anno furono proposti gli accordi di Brendon-Wurst, che prevedevano la nascita di un fondo monetario internazionale e di una banca mondiale; il fondo sarebbe servito a tutti quei paesi che avevano bisogno della ricostruzione, a una condizione: che accettassero l’economia di mercato. Gli Stati Uniti volevano quindi formare un sistema fondato sul liberismo economico, in cui la nuova moneta di scambio avrebbe dovuto avere alle spalle un sistema economico solido, perché non doveva essere svalutata; questa moneta era ovviamente il dollaro, che diviene così moneta di scambio internazionale. Un altro aspetto da considerare fu quello della questione politica sul mantenimento della pace; con questo obiettivo nel giugno del 1945 nasce l’Onu, l’Organizzazione delle Nazioni Uniti, con intenti simili a quelli della Società delle Nazioni ed un impegno maggiore per raggiungere i seguenti scopi: promuovere la pace e lo sviluppo (economico, sociale e culturale), eliminare le differenze, promuovere l’uguaglianza e il rispetto dei diritti umani. L’Onu si compone inoltre di due organismi: l’Assemblea Generale (in cui vengono discussi i problemi, ma che non ha potere decisionale) e il Consiglio di Sicurezza (dove si decide l’intervento militare e di cui fanno parte cinque membri in pianta stabile: Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Russia e Cina). Sul piano politico, il 12 marzo 1947 l’allora presidente degli Stati Uniti d'America Truman annuncia la ‘politica del contenimento’ in un discorso tenuto alle camere in seduta comune, che prendeva spunto dai casi di Grecia e Turchia, i quali avevano lasciato intravedere la possibilità dell'espansionismo sovietico. Questa dottrina si proponeva di combattere l'espansionismo comunista in Europa e in Asia; infatti il presidente Americano sosteneva che per la sicurezza interna gli Stati Uniti non potevano rimanere insensibili e indifferenti di fronte a casi in cui l’indipendenza e la sovranità di popoli liberi venisse messa in pericolo da tentativi di sovversione interna o da pressioni esterne: in tal caso gli Stati Uniti avrebbero supportato i popoli liberi a resistere ai tentativi di assoggettamento da parte di minoranze armate o da pressioni esterne. Nel frattempo viene proposto anche il Piano Marshall, che annunciava la decisione degli Stati Uniti di avviare l’elaborazione e l’attuazione di un piano di aiuti economico-finanziari per l’Europa. Marshall affermò che l’Europa avrebbe avuto bisogno, almeno per un po’ di anni, di ingenti aiuti da parte statunitense e che, senza di essi, la gran parte del Continente avrebbe conosciuto un gravissimo deterioramento delle condizioni politiche, economiche e sociali. Pur rimanendo sul vago, relativamente a quelli che avrebbero dovuto essere i caratteri del Piano, il segretario di Stato si augurò che da esso sarebbe potuta scaturire non solo una nuova e più proficua epoca nella collaborazione tra le due sponde dell’Atlantico, ma anche una prima realizzazione di quei progetti europeisti fino ad allora caratterizzati da un certa vaghezza utopistica. Il clima tra Unione Sovietica e Stati Uniti si fa incandescente nel ’49, quando i russi annunciano la creazione della bomba atomica; come effetto, per tutti gli anni ’50 entrambe le parti danno vita alla corsa agli armamenti. La principale conseguenza diretta del particolare clima creatosi negli Stati Uniti con la guerra fredda fu il cosiddetto Maccartismo, una serie di inchieste politico-giudiziarie svoltesi fra gli anni '40 e '50, tese a colpire qualunque possibile "influenza comunista" negli apparati dello stato, e persino nei comportamenti di singoli individui. Tali inchieste, condotte spesso anche in palese contrasto con i principi costituzionali e giuridici statunitensi, colpirono numerosi soggetti, in molti casi soltanto sulla base di un semplice sospetto. Fra di essi vi furono anche famosi personaggi della cultura e dello spettacolo, tanto che la paura di incappare nelle maglie delle inchieste anticomuniste finì per condizionare anche le scelte artistiche di scrittori, registi e produttori cinematografici che, salvo eccezioni, dovettero sempre tenersi, in quegli anni, su una linea "politicamente corretta". Il maccartismo fu figlio del clima di tensione e paura creatosi a partire dai tardi anni '40, ma certamente, con i suoi processi accusatori e la sua caccia spesso immotivata al traditore, finì per essere al tempo stesso moltiplicatore di tale clima di paura, grazie anche alla risonanza che tali vicende avevano presso i mass-media. Un altro aspetto della guerra fredda tra USA e URSS fu la Corsa allo spazio; i due blocchi si sfidarono infatti nella rincorsa a sempre maggiori successi nel lancio di missili, satelliti e nella conquista della luna nel periodo che all'incirca va dal 1957 al 1975 cercando di prevalere l'uno sull'altro. Anche se le radici affondano nelle prime tecnologie missilistiche e nelle tensioni internazionali che seguirono la seconda guerra mondiale, la corsa allo spazio iniziò dopo il lancio dello Sputnik 1 sovietico il 4 ottobre 1957. Il termine è analogo alla corsa agli armamenti. Essa divenne una parte importante della rivalità culturale, tecnologica e ideologica tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica durante la guerra fredda. La tecnologia spaziale divenne una importante arena per questo conflitto a distanza, sia per le potenziali applicazioni militari che per i benefici psicologici derivanti dalla propaganda e il morale. A quella prima vittoria sovietica, gli Stati Uniti risposero circa nove mesi dopo lanciando in orbita il loro primo satellite, l’Explorer I. Nel 1963 ancora l’URSS manda nello spazio il primo uomo, Yuri Gagarin, che il 12 aprile 1961 compie il primo giro dell’orbita terrestre. I traguardi raggiunti dai sovietici e dagli americani portarono moltissimo orgoglio nazionale ad entrambe le nazioni, ma l'obiettivo della corsa allo spazio divenne l'invio di un uomo sulla Luna. Così il presidente degli Stati Uniti John Kennedy e il vice presidente Johnson cercarono un progetto che catturasse l'immaginazione collettiva. Il Programma Apollo raggiungeva molti di questi obiettivi e riuscì a sconfiggere le argomentazioni dei politici di sinistra (che erano favorevoli ai programmi sociali) e di destra (che invece preferivano un progetto più militare). I vantaggi del programma Apollo comprendevano benefici economici a molti stati che sarebbero stati importanti nelle successive elezioni, la chiusura del gap missilistico affermato da Kennedy durante la campagna elettorale del 1960. Kennedy chiese al Congresso di finanziare il Programma Apollo per oltre 22 miliardi di dollari, con lo scopo di portare un uomo statunitense sulla Luna entro la fine della decade. "Abbiamo scelto di andare sulla Luna e di fare altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili", disse Kennedy. Sei anni dopo la sua morte questo obiettivo fu infine raggiunto: l'astronauta americano Neil Armstrong fu la prima persona a mettere piede sulla Luna il 21 luglio 1969. Comandante della missione Apollo 11, Armstrong ricevette il supporto del pilota del modulo di comando Michael Collins e il pilota del modulo lunare Buzz Aldrin in un evento seguito da più di 500 milioni di persone in tutto il mondo. L'atterraggio sulla Luna venne interpretato come uno dei momenti più significativi del ventesimo secolo e le parole di Armstrong sono state memorabili: ‹‹Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un balzo da gigante per l'umanità››.
La guerra fredda tra Stati Uniti ed Unione Sovietica passa anche attraverso delle guerre ‘secondarie’, ma che tanto hanno fatto discutere all’epoca, una su tutte la guerra del Vietnam (o Seconda Guerra Indocinese). La Prima Guerra Indocinese, durata dal 1946 al 1954 aveva visto contrapposte Francia (che aveva occupato i territori a Sud) e il Vietnam del Nord; nella Conferenza di Ginevra del 1954, che sancì la fine della guerra, si prese atto che si sarebbe dovuto formare un unico Vietnam (che comunque venne provvisoriamente diviso lungo il 17° parallelo), e che la Francia avrebbe dovuto lasciare i suoi possedimenti. È a questo punto che entrano in scena gli Stati Uniti che, non potendo permettere che l’URSS conquistasse altri territori, decidono di non firmare l’atto ufficiale della Conferenza di Ginevra. Come conseguenza, al Nord si iniziano a seguire le direttive di Mosca, mentre a Sud si installa un debole governo filo-occidentale, sorretto dall’America, che non riusciva ad effettuare alcuna riforma. Nel frattempo si crea un movimento di opposizione comunista, i cosiddetti Viet Cong che, finanziati dalla Russia, danno luogo ad una serie di attentati; frattanto, nel 1960, Kennedy diventa presidente degli Stati Uniti, ed inizia ad aumentare la presenza statunitense nel Vietnam del Sud; cinque anni dopo, con il governo Johnson, scoppia la Seconda Guerra Indocinese.
Molti americani si opposero alla guerra per questioni morali, vedendola come un conflitto distruttivo contro l'indipendenza vietnamita, o come un intervento in una guerra civile straniera; altri la opposero perché sentivano che mancava di obiettivi chiari e appariva come non vincibile. Alcuni attivisti pacifisti erano essi stessi veterani del Vietnam, come evidenziato dall'organizzazione Veterani del Vietnam. Esemplare a questo proposito è da considerarsi la vicenda di Ron Kovic, veterano della guerra in Vietnam che, paralizzato dopo il conflitto su una sedia a rotelle e sperimentando tutte le falle e le dimenticanze dello Stato nei confronti di chi ha servito la patria, passa da una posizione favorevole alla guerra ad una pacifista. La sua storia è stata raccontata in Born On The Fourth Of July (Nato Il 4 Luglio) del regista Oliver Stone del 1989, e prima ancora da Springsteen in Born In The U.S.A., canzone che dà il titolo all’album omonimo pubblicato nel 1984 e che ha fatto conoscere lo storyteller al grande pubblico (anche se in molti non hanno voluto capire il testo della canzone, esplicitamente di protesta, compreso l’allora presidente Reagan). Springsteen aveva conosciuto Ron Kovic nel 1978, ed era stato portato da lui a visitare il Centro Veterani di Venice, occasione in cui avrà anche modo di conoscere Bobby Muller, fondatore dell’organizzazione Veterani del Vietnam d’America. Ed è questo il mondo che Springsteen racconta nella canzone: ‹‹Parla dei problemi che dovevano affrontare i veterani del Vietnam una volta rientrati in patria dopo aver combattuto “l’unica guerra che l’America avesse mai perso”›› racconta ‹‹Per recepire il messaggio della canzone bisognava dedicarci un po’ di tempo e di concentrazione, in modo da assorbire tanto la musica quanto le parole. Ma questo non è il modo in cui tanta gente fruisce la musica. Per la maggior parte delle persone il testo viene sempre dopo quello che l’ascoltatore prova››. Nel testo non c’è speranza, non c’è possibilità di fuga. È tutto semplicemente fermo, immobile, incapace di dare una risposta. E la rabbia di chi si ritrova solo emerge dal cantato di Springsteen:
Nato in una città di morti
Il primo calcio l’ho preso appena ho messo i piedi a terra
Finisci come un cane bastonato troppo a lungo
Fin quando non passi metà della tua vita cercando di nasconderti
Nato negli Stati Uniti, sono nato negli Stati Uniti
Mi ero cacciato nei guai dalle mie parti
Così mi hanno messo un fucile in mano
Mi hanno spedito in una terra straniera
Per andare ad uccidere i musi gialli
Nato negli Stati Uniti, sono nato negli Stati Uniti
Torno a casa, alla raffineria
Il mio capo mi fa: ‹‹Figliolo, fosse per me…››
Vado a parlare con uno del Dipartimento Veterani
Mi dice: ‹‹Ragazzo, lo capisci, adesso?››
Avevo un fratello a Khe Sahn, combatteva i Viet Cong
Loro sono ancora lì, lui non c’è più…
Aveva una donna che amava a Saigon
Ho una foto di lui tra le sue braccia
Giù nell’ombra del penitenziario
Fuori, tra i gas roventi della raffineria
Sono dieci anni che brucio per la strada
Nessun posto dove correre, non ho nessun posto dove andare
Lo stesso Ron Kovic avrà poi modo di dire: ‹‹Sono immobilizzato su questa sedia a rotelle da tanti anni. E posso solamente ringraziare Bruce Springsteen per quello che ha fatto a favore dei veterani del Vietnam. Born In The U.S.A. è una canzone magnifica che mi ha aiutato tantissimo››.
Lo spettro della guerra del Vietnam è stato tuttavia risvegliato recentemente da alcuni studiosi a proposito di un altro ‘pantano’, per dirla così, vale a dire la guerra in Iraq, che per certi versi richiama quella di quaranta anni fa. In ogni caso trarne adesso delle considerazioni sarebbe inutile, quindi non ci si soffermerà sulla vicenda in sé, tanto – ed è questo ciò che conta ai fini del suddetto scritto – i risvolti che questa guerra (ma qualsiasi guerra, alla fine) ha sui soldati che combattono al fronte. La canzone Devils & Dust, dell’album omonimo del 2005, tratta ad esempio di un campo di battaglia, una scelta da prendere, un soldato che riflette: ‹‹Cosa succede quando ciò che fai per sopravvivere uccide le cose che ami, una parte di te, i tuoi ideali?››. La risposta non verrà questa volta, resterà sospesa nel vento sporco che soffia nel deserto; neanche Dio, la fede basta in questo momento: l’uomo è solo con sé stesso, deve fare i conti con cosa è diventato, deve capire in cosa la paura l’ha trasformato. Come ha detto Springsteen, ‹‹ Ciò che conferisce potere e tensione alla canzone è il contrasto tra i versi, quello che il protagonista sa che gli sta succedendo e la sua opposizione, il suo rifiuto che sono espressi nella musica e nella performance. La fede non basta. Ti devi dare da fare nel mondo fisico. Siamo stati tutti morsi dal serpente, ma non dobbiamo essere tutti uccisi dal suo veleno…››. Queste considerazioni riportano un po’ la mente al discorso portato avanti da Nietzsche, sulla morte di Dio soprattutto (nonché sulla metafora del serpente, simbolo dell’eterno ritorno dell’uguale). Il filosofo infatti, nella fase illuminista della sua vita, teorizzò proprio la morte di Dio, dovuta all’enorme sviluppo tecnologico che il Positivismo aveva contribuito a creare, insieme con una eccessiva fiducia nelle capacità umane e scientifiche. Dio è morto, dice, ma non è stato lui ad ucciderlo. Sono stati tutti gli uomini, e l’uomo folle (rappresentato dalla figura del folle che annuncia la verità e viene deriso) è soltanto colui che l’ha capito e l’ha detto ad alta voce. Colui, se vogliamo, che deve fondare una nuova umanità, basata questa volta non sui valori eterni, millenari e assoluti ma sulla terra (sarà compito del superuomo). Un mondo senza Dio è anche quello descritto in Devil’s Arcade, canzone tratta dall’ultimo lavoro di Springsteen, Magic, del 2007, nella quale si racconta la vita del soldato tratto in salvo nell’accampamento. Le partite a poker, il dovere che chiama… Le tre strofe terminano sempre con immagini sfuocate, man mano che si va avanti… è una vita che muore… ‹‹Dicevi che gli eroi sono necessari, per questo ne creano›› ricorda un suo compagno, cercando forse di tenerlo in vita; e alla fine pare riuscirci: il soldato riprende conoscenza, sogna il suo ritorno a casa, la galleria del diavolo sembra allontanarsi…
Una voce dice: “Non preoccuparti, sono qui”
Sussurra soltanto una parola: “Domani” nel mio orecchio
Una casa in una strada tranquilla, una casa per l’uomo coraggioso
Il regno glorioso del sole sul tuo viso
Sorge dopo una lunga notte buia come una tomba
In una catena di attimi futuri e qualcosa che dovrebbe esser fede
In una mattina da programmare, una colazione da fare
Un letto illuminato dalla luce del sole, un corpo che aspetta
Una tua carezza, che finisca il giorno
Il battito del tuo cuore, il battito del tuo cuore
Il lento spegnersi dei fuochi amari della galleria del diavolo…
Canzone che racconta invece del dramma del ‘non ritorno’ è Gypsy Biker, contenuta sempre nello stesso album; la casa, la famiglia del soldato aspettano che lui ritorni, ma invano: sembra quasi risentire gli echi di X Agosto di Giovanni Pascoli. Il ritorno era questione di giorni, c’erano già i preparativi in corso, e all’improvviso suona il telefono: una vita è stata spezzata. A chi rimane non resta il dolore, simbolicamente rappresentato dalla moto del soldato che, portata su un dirupo, viene bruciata. E la rabbia per una perdita ingiusta, come tutte le perdite, ma che dalla sua non ha nemmeno la consolazione di sapere di essere dalla parte giusta della barricata: ‹‹I favoriti marciano sulla collina in una stupida parata, cantano vittoria per i giusti, ma di loro ci sono solamente le tombe››. È il fratello che dà l’ultimo addio al giovane soldato, in una finale, amara considerazione:
A chi è morto non importa poi tanto chi ha torto e chi ragione
Mi avevi fatto questa domanda, non l'avevo capita
Sei scivolato nell'buio, ed ora tutto quello che mi rimane
È il mio amore per te, fratello, saldo e immutabile
Per chi ha buttato via la tua vita sei solo un altro morto
Il mio motociclista zingaro che stava tornando a casa
Ora conto le strisce bianche
Le conto e le guardo impietrito
Il mio motociclista zingaro sta tornando a casa
Lo stesso dramma familiare viene raccontato in The Valley Of Elah, film del 2007 diretto da Paul Haggis; è la storia di un ragazzo che, tornato dall’Iraq, sparisce; inizialmente si pensa ad un allontanamento volontario, il padre Hank (un veterano della guerra in Vietnam, interpretato da Tommy Lee Jones) vorrebbe delle risposte ma incontra ben poca collaborazione tra la polizia. Alla fine la verità verrà a galla, e sarà un’amara scoperta vedere come la violenza della guerra penetri nella vita di chi la vive sulla propria pelle, lasciando segni indelebili nell’anima e nella testa. Dialogo chiave del film è quello che si svolge all’inizio, prima che tutta la storia cominci: Hank passa davanti ad una scuola, e si ferma perché vede sventolare la bandiera Americana al contrario; scende dalla macchina, parla con il custode (un portoricano) e gli dice:
- Sai cosa vuol dire quando una bandiera sventola capovolta?
- No...
- E' una richiesta internazionale di soccorso...
- Sul serio?
- Sul serio... Significa che siamo nei casini e qualcuno deve venire a salvarci il culo perchè non ce la caviamo da soli...
- Ne sa di cose...
- Sì, parecchie...
Di ritorno dal suo viaggio, Hank, profondamente cambiato e scosso dalla vicenda, ritorna davanti a quella stessa scuola e fa innalzare la bandiera che suo figlio gli aveva spedito dall’Iraq. Però la mette al contrario: la Nazione, adesso l’ha capito, ha bisogno di aiuto per venire fuori dalla spirale di odio e cattiveria in cui sembra essere precipitata.
- Così va bene?
- Così va bene...
- Sembra molto vecchia...
- L'hanno usata parecchio...
- E non devo ammainarla la sera?
- No... Lasciala così com'è...
SARÀ LUNGA LA STRADA VERSO CASA…
Si può dunque ancora credere al Sogno Americano, alla sua potenza, alla sua attrazione? Si può cioè cedere alla tentazione di inseguire qualcosa di lontano, di apparentemente irraggiungibile, di estremamente sfuggente? Si può avere il bisogno di credere ancora alle favole, anche se tutti quanti siamo ormai grandi e sappiamo che potrebbe non esserci quella pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno narrata da tante antiche leggende? Si può ancora difendere una nazione che ultimamente sta facendo di tutto per rendersi antipatica agli occhi di tutto il resto del mondo? La risposta non è né semplice, né facile. E d’altronde, come qualcuno diceva, non sempre la strada più semplice è quella più giusta. Certo, sarebbe anche comodo rifiutare tutto quello che l’America rappresenta, le sue idee, le sue decisioni; è proprio quello che sta avvenendo ultimamente. Però, prima di dare una risposta definitiva, sarebbe meglio riflettere su alcune cose, come ad esempio cosa si contesta. Sì, perché al di la di tutto quello che si dice ciò conta è l’anima, lo spirito di una persona, e non tanto il corpo. Il discorso vale anche in questo caso. Possiamo non essere d’accordo – e a ragione – con la guerra in Iraq, con i missili, con tante altre cose. Però se si va a scavare più in profondità, rifuggendo da facili condanne moraliste, se si vanno cioè a considerare i veri valori Americani, quelli che hanno animato e animano tutt’oggi milioni e milioni di cittadini, ci si accorge che la verità è alquanto incontrovertibile: gli Stati Uniti si presentano ancora oggi come un paese dove tutto può succedere, un paese che apre le porte alla possibilità, nel quale non conta tanto il chi sei quanto il cosa vali, che si presenta ancora, nonostante tutto, come la terra della Libertà. Come la Terra dei Sogni e delle Speranze di migliaia di persone in tutto il mondo.
Vanessa